Da Parigi, per Rémi

Nella notte tra sabato e domenica scorsi, Rémi é stato ucciso da una granata della polizia durante una giornata di lotta nella ZAD del Testet, in una mobilitazione che vuole impedire lo scempio di una regione con una mega diga. Da allora la mobilitazione dopo questo assassinio di stato ha coinvolto diverse città di Francia e altrove; questo testo parla di quello che succede a Parigi.

(In caso qui c’è anche la versione per leggerlo in pdf)

Parigi, 3 novembre 2014

Domenica 26 ottobre un messaggio illumina il display del cellulare: “dopo la manifestazione di ieri alla ZAD del Testet è morto un compagno nel corso di scontri con gli sbirri in circostanze non chiare, appuntamento alle 19 a Saint Michel; fate girare”.
Questo lo stringato testo con cui la morte di un manifestante irrompe a Parigi avvisando alcuni tra coloro che si mobilitano sulle lotte nella capitale.une-manifestation-a-la-memoire-de-remi-fraisse-a-paris
La ZAD del Testet è un terreno nel sudovest, vicino a Tolosa, dove il governo e alcuni grandi coltivatori vogliono costruire una mega diga per consentire la produzione intensiva del mais. Il tutto distruggendo un ecosistema (chiamato “zona umida”) ricca di specie rare, ma soprattutto devastando il volto del territorio, espropriando terre e imponendo la logica della “grande opera” come sola espressione dell’uso capitalista di un milione e mezzo di metri quadri di campagna, alberi, vite e villaggi. Il giorno precedente, sabato 25 una grande manifestazione era lanciata e si è svolta nelle zone coinvolte dai lavori, cominciati con l’abbattimento di centinaia di alberi a suon di attacchi polizieschi sistematici a chi si oppone al progetto.
Ricevuto il messaggio inizia la ricerca d’informazioni sulla vicenda: un morto è una botta che stringe lo stomaco, il pensiero corre ai precedenti, a quando proiettili della polizia spezzano vite o infami lame fasciste ci sottraggono i nostri compagni. Un morto è l’irreversibile che ti si scaglia contro e la necessità di fare qualcosa per non subire in silenzio l’ennesima goccia di sfruttamento.

Nelle prime ore la sola notizia ufficiale è la scialba parola poliziesca: “un corpo di un giovane è stato trovato verso le 2 di notte nella zona interessata dal cantiere della diga del Testet”, il tanfo di menzogna si eleva subito mentre i primi racconti dei compagn* presenti sul posto parlano di una notte di scontri, di feriti, di pioggia di flashball e granate e di campi ricoperti dalla fitta nebbia dei lacrimogeni mentre sono illuminati dai proiettori della polizia alla ricerca dei resistenti.

Il primo appuntamento è per vedersi e per capire un po’ meglio la situazione, il cielo scuro avvolge il centro parigino mentre, a pochi metri dalla fontana di s. michel, il ponte verso l’isola della cité è bloccato dalle camionette pronte a reagire. Gli interventi attaccano la polizia, le conferme ufficiali non ci sono, dev’esserci ancora l’autopsia, ma l’omicidio di stato emerge già: da sempre la polizia uccide in Francia, soprattutto nei quartieri popolari; nei momenti di lotta usa con sempre maggior frequenza un arsenale di armi dette non letali che hanno lo scopo di terrorizzare, mutilare e talvolta uccidere.

Con queste parole in circa 150, richiamati dai messaggi che passavano nel pomeriggio domenicale si decide di partire in corteo selvaggio nel quartiere latino, passando sotto notre dame verso la sede del comune. L’agibilità nella capitale è sempre ristretta e, dopo una mezz’ora, i celerini usciti dai blindati che seguivano il piccolo corteo caricano alle spalle la manif disperdendo rapidamente nelle vie circostanti parte dei manifestanti e accerchiandone altri. La pratica della “nasse policière” si mette in atto: il gruppo più compatto dei manifestanti viene accerchiato sempre più strettamente e poi si procede, lentamente, all’identificazione o al fermo uno ad uno. Queste condizioni consentono una sistematica schedatura e la costante pressione poliziesca pronta ad agire con massima violenza a ogni minimo accenno di resistenza.

L’indomani comincia la strategia coordinata di governo e media: dopo le menzogne della prima ora che parlavano di un cadavere trovato per caso in un bosco invece che di un corpo recuperato dai celerini in mezzo agli scontri intriso di sangue e trascinato come un sacco dietro le loro linee. Mentre la tesi di un assassinio con l’uso di granate o flashball inizia a prendere corpo grazie alle testimonianze dei presenti sui luoghi degli scontri, il procuratore incaricato dell’inchiesta sceglie accuratamente le parole: “ferito da un’esplosione” aggiungendo che gli inquirenti si muovono per “verificare il contenuto dello zaino” di Rémi. Il gioco è semplice, non potendo più negare la circostanza della morte legata alle iniziative di lotta, la volontà è trasformare in pericoloso blackbloc il ragazzo ucciso. Per due giorni il contenuto del suo zaino è stato al centro di allusioni dei media imboccati dalle dichiarazioni poliziesche fino a quando l’analisi tecnica ha trovato tracce di TNT, l’esplosivo militare contenuto nelle granate offensive della polizia.

Rémi è stato assassinato dal governo socialista che continua i progetti giganteschi al servizio del profitto e dai suoi sbirri che schiacciano, mutilano, uccidono chiunque non accetti battendo le mani una vita di sfruttamento.
A Parigi, dopo il primo appuntamento di domenica e un’assemblea, gigante quanto confusa, si lancia una manifestazione davanti al comune per denunciare le violenze poliziesche. Tutto è organizzato in rapidità, un appello a manifestare con i caschi per mostrare la determinazione a difendersi dagli sbirri circola in rete. All’appuntamento semi-improvvisato qualche centinaia di manifestanti sono circondati da altrettanti sbirri che al primo accenno di partenza di un corteo selvaggio, caricano disperdono e accerchiano quelli rimasti compatti identificandoli uno a uno.

In altre città francesi la rabbia si esprime nei vari appuntamenti in ricordo di Rémi e contro la violenza poliziesca, soprattutto a Nantes e Tolosa, vicine ai luoghi dove sono radicate le lotte e la sperimentazione politica autonoma delle ZAD (Zone da difendere o Zone di autonomia definitiva a seconda delle interpretazioni), rispettivamente Notre-Dame-des-Landes e appunto il Testet. Qui e altrove manifestazioni selvagge accompagnano i momenti di lutto e indignazione: alcuni danneggiamenti, molte scritte sui muri, mentre le forze dell’ordine vengono attaccate anche materialmente. La risposta non si fa attendere, a Nantes un manifestante è stato gravemente ferito al naso ed un altro all’occhio dai flashball, mentre le granate di dis-accerchiamento hanno ferito almeno cinque persone a Tolosa con i loro frammenti che si conficcano nella carne.
Ma è doveroso ricordare come la violenza poliziesca contro i manifestanti è solo una (piccola) porzione di quella che quotidianamente viene imposta nei quartieri popolari, soprattutto contro i giovani e i migranti. Nelle stesse ore un’ennesima mutilazione ha luogo a Blois, ennesimo ragazzo che ha perso un occhio in un confronto con gli sbirri.

 Il clima politico s’infiamma e dopo le prime critiche anche da parte di alcuni esponenti partitici della gestione poliziesca della vicenda, le manifestazioni di rabbia offrono l’occasione per la ricorrente unità nazionale ed il consueto attacco ai violenti casseurs. La retorica sempreverde dei buoni e cattivi occupa allora lo spazio. Alcune associazioni ambientaliste e soprattutto i verdi, in cronica mancanza di linfa politica, si spendono per rendersi visibili in iniziative di omaggio alla figura di Rémi, sperticandosi in accuse a chi non vuole seguire i loro diktat su manifestazioni silenziose con limitate accuse alla polizia e conseguenti parziali rivendicazioni sulla rimozione di questo o quel dirigente. Esponenti dei verdi arriveranno anche a ripetere le parole del ministro dell’interno Cazenueve dicendo “chi manifesta con violenza offende la memoria di Rémi”, in un’oscena volontà di imporre la docilità e screditare ogni iniziativa autorganizzata che non si limiti alla tristezza e al ricordo, ma voglia continuare una lotta che vede nella repressione sistematica un nemico da attaccare.

La strategia porta i suoi frutti e molte organizzazioni politiche (tra cui l’NPA – il “nuovo” partito anticapitalista – che solo due mesi prima aveva dichiarato ai quattro venti che non avrebbe accettato divieti per le manifestazioni in sostegno a Gaza, vietate dalla polizia) ritirano la propria adesione alla manifestazione autorganizzata lanciata per domenica 2 novembre dopo il divieto da parte della Prefettura. Nel corso delle ore la pressione e la repressione aumenta a dismisura: la notificazione del divieto di manifestare viene portato dalla polizia direttamente a casa di chi ha fatto la richiesta, gli echi degli scontri in altre città han acceso ancora di più i riflettori sulla capitale e fatto elevare il coro della responsabilità del governo socialista e dell’opposizione uniti nel dire che “le violenze non saranno tollerate”.
Ecco allora che un sit-in organizzato in contemporanea con la manifestazione dall’associazione ambientalista frequentata da Rémi diviene il solo luogo “legittimo” per il dissenso non violento. Il governo con il divieto della manifestazione e la “ritirata strategica” di organizzazioni e partiti detti di opposizione ha completato l’isolamento dei movimenti che ha potuto così demonizzare e criminalizzare al massimo. L’ultimo spauracchio giunto proprio alla vigilia della manifestazione è quello dei getti d’acido ai robocop che, secondo loro avvenuti a Nantes la vigilia e dunque temutissimi e pronti a Parigi, proprio come quei gavettoni di sangue per chi ricorda il 2001 genovese.
Le realtà autorganizzate devono confrontarsi con questo clima che scoraggia ogni forma di partecipazione alla manif e che tenta in ogni modo di impedirne la visibilità, mentre i giornali si focalizzano sull’appuntamento delle associazioni sotto la torre Eiffel e ripetono l’appello dei dirigenti NPA a disertare l’iniziativa prevista a Stalingrad.

Nell’ultima assemblea prima del corteo si è consapevoli del rischio di trappola poliziesca, il luogo del concentramento è molto scomodo e inadatto ad ogni velleità di movimento non autorizzato, l’appuntamento è già girato e si spera molto che ci sarà gente che non vuole mangiarsi l’ennesima umiliazione poliziesca a sette giorni dall’uccisione di un compagno. La vigilia centinaia di volantini attraversano la manifestazione curda in solidarietà a Kobane per confermare la necessità di esserci: “noi abbiamo lanciato una manifestazione per questa domenica, il governo l’ha vietata, sfidare il divieto è il minimo! Resistiamo insieme. Non facciamoci governare dalla paura. Quando uccidono uno di noi, vogliono dirci che la nostra vita non ha nessun valore. Mostriamo loro che strappare una vita gli costerà molto caro!”.

La domenica la polizia decide di mostrare i muscoli e mette in moto una macchina infernale: lo spazio collettivo nell’est parigino dove si son svolte alcune delle assemblee e dove c’era il punto tecnico prima della manifestazione è sorvegliato e chiunque provi a uscire fermato e perquisito. Le fermate metropolitane a Montreuil, un comune limitrofo a Parigi dove ci sono parecchi compagn* sono presidiate e un gruppo che si muove dallo spazio collettivo viene arrestato preventivamente dopo un inseguimento di macchine e furgoni, finito tra i vagoni della metro sospesa per lasciare tempo alla polizia di procedere. L’obiettivo, raggiunto, era di prendere ogni strumento utile per la manif: striscioni, volantini, megafoni.
Stessa sorte per chi veniva visto volantinare testi attorno al luogo dell’appuntamento: subito in stato di fermo.
La situazione nella zona nordest della città è impressionante sin dal primo sguardo due ore abbondanti prima dell’appuntamento: percorro in bici la zona e da ogni direzione sono parcheggiati a decine le camionette dei celerini e della gendarmerie. Ogni uscita della metropolitana delle stazioni vicine al luogo di concentramento è blindata, il perimetro completamente militarizzato si estende da Colonel Fabien a est, la Chapelle a ovest e la Gare de l’Est a sud: quattro quartieri almeno sconvolti dalla presenza poliziesca. Ripasso a ridosso delle 15h e la pressione è ancora aumentata: chiunque risponda secondo qualche logica poliziesca ad un manifestante in potenza (giovane, chi indossa abiti trasandati, chi ha zaini, spille o adesivi) viene fermato identificato e perquisito. Ogni oggetto che ha a che fare con la manifestazione viene sequestrato, il legal team ha conteggiato almeno un centinaio di fermi preventivi prima della manifestazione. Oltre al gruppo di Montreuil anche alcuni antifascisti organizzati sono stati accerchiati e fermati prima di arrivare nei dintorni di Stalingrad.

Faccio un ennesimo giro di perlustrazione del dispositivo repressivo impressionante per vedere se ci sono vie di fuga e per capire come muoversi conoscendo minimamente la posizione dei reparti che sono semplicemente dappertutto. Qualcuno più attento e preciso di me li ha contati con metodo fermandosi a quota 97 camionette di antisommossa!     Venire diretto dal lavoro e con tenuta vestimentaria conseguente, oltre al mio essere solo, mi han permesso di passare accanto ai controlli senza essere identificato e perquisito, al contrario di molti altri e arrivo a ridosso della piazza del concentramento. Ci vuole determinazione per entrarci, il comitato di benvenuto è una distesa di caschi della polizia da ogni lato, la piazza è circondata, squadre di civili scrutano i passanti e indicano quelli da fermare. Incrocio molti titubanti che fanno dietrofront, scorgo parecchi volti già visti da qualche parte affacciarsi dai vetri dei caffè nei dintorni, una madre che accompagna il figlio adolescente punk gli dice “mi spiace ma non andiamo guarda qua finisce male, guarda quanti sono i poliziotti….”

La situazione è irreale: sulle colline, sparpagliati, ci sono i manifestanti che come me hanno fatto un gran sospiro e deciso che bisogna esserci, che non si può restare a casa se ammazzano un compagno e ti vietano ogni manifestazione.
I timori ce li siamo detti e scambiati la vigilia nella sera tarda al bar: chi viene e lascia ad amici che rinunciano i documenti e le “garanzie di rappresentazione” (gli attestati di residenza e di lavoro per esser rilasciati in caso di arresto), chi si organizza per avere qualcuno che chiama il lavoro in caso non si potrà andarci l’indomani, oltre a sapere già chi porta qualche crocchetta al cane lasciato solo. Queste piccole cose danno la misura concreta del livello di repressione parigina, dove le manifestazioni autorganizzate ormai non cominciano neanche e l’accerchiamento e identificazione dei presenti divengono sistematici. La “nasse” dei poliziotti si ripete di bocca in bocca, si teorizza e si esorcizza pure in qualche canzoncina.
Nello spiazzo della rotonda di Stalingrad sparpagliati sulle panchine o in piedi si intuiscono parecchi venuti fin del ventre della bestia di una parigi militarizzata, ognuno per sé, uno sguardo all’orizzonte nella speranza di vedere tanta gente arrivare e un occhio ai movimenti delle squadre della polizia che, come pedine della dama, seguono lo schema dei loro ordini.

Non ci sono striscioni, nessuno volantina più, nel mezzo della piazza, simbolo della volontà di umiliazione della polizia girano gruppi di tre poliziotti senza neanche i caschi che si avvicinano a chiedere documenti e perquisendo gli zaini, “noi facciamo quello che vogliamo e voi non fate nulla” sembrano dire con ogni gesto.
Poi una scossa, un signore arriva e depone delle scatole di uova al centro della piazza con uno slogan contro la polizia assassina, subito è circondato e le uova schiacciate e il cartellone strappato, allora ecco che cominciano, timidi prima, e un po’ più sicuri poi, gli slogan mentre la gente comincia ad avvicinarsi, a sentirsi piu’ vicina, a riconoscersi. Alla fine in quella padella circondata da sbirri ci siamo in quattrocento e almeno un segnale si può dare, almeno a noi stessi visto che i passanti è dura incrociarli date le condizioni di accerchiamento.
La pressione poliziesca è sempre serrata, alcuni si allontano quando vedono chiudere anche le poche vie di fuga ma altri, alla spicciolata, si aggiungono. Alcuni cartelloni sono scritti sul momento, uno striscione spunta da chissà dove insieme ai volantini della giornata ristampati in fretta e furia, viene letto collettivamente il testo che rivendica la volontà di fare una manifestazione non autorizzata e di attaccare le violenze poliziesche, ma anche di continuare la mobilitazione e pensare a forme per combattere la repressione. Anche alcuni dissidenti dell’Npa si aggiungono ai manifestanti gridando la loro collera contro la direzione traditrice del loro partito.

Non ci sono margini per fare nulla, già esserci e parlare sembra una piccola conquista, si decide di allontanarsi tutti insieme per non farsi accerchiare ancora una volta e così, compatti, si è cominciato a imboccare la sola via libera dal muro poliziesco: un sentiero pedonale accanto al canale st martin. Dopo 50 metri anche questo cammino è bloccato e gas al peperoncino viene spruzzato sui primi della fila. Nessuno scampo, unica possibilità è l’uscita solitaria, in sordina e con l’aria vaga per sottrarsi all’accerchiamento che dopo una mezz’ora si stringe sempre di più per cercare di soffocare ogni opposizione alla polizia.
Ma nonostante tutto questo si continua a cercare di organizzarsi e tentare di articolare una mobilitazione che sappia rovesciare il terrorismo di stato contro chi si ribella e per portare rabbia e lotta tra le strade di Francia. Altre assemblee sono convocate, chi si batte contro i tanti omicidi impuniti della polizia riconosce come suoi simili coloro che lottano contro la repressione e anche per Rémi, i liceali di poco più giovani di lui hanno fatto appello ad una giornata di lotta, molti altri sono choccati e raccontano le iniziative dopo l’uccisione di Malik Oussekine ucciso dalla polizia durante una manifestazione studentesca nel dicembre 1986.
Rémi aveva 21 anni e, appassionato della natura, ha incrociato l’esperienza umana e di lotta delle ZAD. È stato ucciso dalle armi della polizia francese, beffardamente chiamate non letali. Poteva essere chiunque di noi, tra chi resiste ai piccoli e grandi soprusi quotidiani. Quella notte Rémi ha visto i bagliori delle granate della polizia e annusato l’aria impregnata dai lacrimogeni. Chi era con lui l’ha visto allontanarsi verso coloro che resistevano agli attacchi polizieschi esclamando: “Allez! Il faut aller!
Bisogna andare e bisogna esserci, dicevi, adesso sta a noi continuare.

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